
Thomas Meyer
Esistono ragazzi che vestono la pazienza come un abito, nonostante la giovane età e i pensieri densi di rovinose insicurezze. E lo fanno meglio di tanti adulti affermati.
Era alla ricerca di ciò che le sfuggiva, voleva ascoltare e afferrare da altri l’inafferrabilità della vita, aveva bisogno di risposte. È così che la passione emotiva per l’esistenzialismo porta la giovanissima Ariel Djanikian, nella primavera del 2002, ad iscriversi ad un corso serale della Pennsylvania University.
Sceglie le lezioni del docente-studente laureato Tom Meyer. Lei non lo conosce, non sa ancora che è un giovane fuori dai canoni della media giovanile americana, che appare ed è intelligente, sensibile, trasandato come un intellettuale francese del secolo scorso, con il colletto e i polsini un po’ ratty, consunti, i capelli neri neri incollati al cranio, magro, pallido in volto.
Ariel è contenta della sua scelta, Tom impersona l’idea dell’esistenzialista come l’aveva sempre immaginato. «Hai Tom Meyer come docente? Accidenti, ho una fissazione per quel ragazzo!», e non è l’unica amica che ha quel tipo di esclamazione. Non c’è da sorprendersi, esiste un’aneddotica lunga su ciò che le ragazze della Penn University pensano di lui.
Alla prima lezione, come tutte le successive, è seduto in maniera informale sulla cattedra ad osservare gli studenti fluire in aula e prendere posto, stirando e attorcigliando la graffetta che ha fra le dita; per facilitare la discussione fa ripetere agli studenti il proprio nome, quello di un grande magazzino, il nome di un attore, di un salume ecc. ecc.
Esistono ragazzi che vestono la pazienza come un abito, nonostante la giovane età e i pensieri densi di rovinose insicurezze. E lo fanno meglio di tanti adulti affermati.
Alle feste rumorose organizzate dai ragazzi del campus è lì, per forza di cose o per questioni contingenti o anche per inedia, costretto dagli eventi oppure no, o semplicemente perché deve essere lì, nella musica ad alto volume che non ama, riprodotta dalla boombox, lo stereo, senza sentire la necessità di astrarsi dal rumore.
È lì, a discutere di questioni importanti, di oggetti, del lampione nella nebbia della sera per strada, o della panchina, ad alta voce, per trovare un’intesa in quel bailamme. Alle feste non è difficile vedere qualcuno, incurante del gran movimento intorno, ragionare ad altissima voce di questioni fuori luogo per il luogo. Ecco, Tom sembra essere proprio quel tipo di persona, e lo è.
Per tutto il semestre il giovane docente ha dato il meglio di sé, dai prodromi dell’esistenzialismo nella fenomenologia di Husserl a Kierkegaard, ha concentrato l’attenzione su quello che meglio sapeva di Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoire. È sceso nel modo d’essere dell’uomo nel mondo e nella caratteristica del mettere in questione il mondo. E ancora, che l’essere del mondo non è nell’uomo, o nella coscienza… E poi molto, tanto Nietzsche.
La giovinezza non contempla i limiti, non comprende l’ossessione borghese del privato che deve rimanere pur sempre privato. Per quello non ha risparmiato le sue esperienze personali. In una lezione racconta di quella volta che è rimasto sveglio tutta la notte per spostare i mobili e, nella lezione della settimana successiva, ritorna sull’argomento per dire che per sua incapacità non era riuscito a riposizionare i mobili come stavano in origine, così che la libreria era rimasta all’inverso, insieme ai divani, alle sedie e agli altri mobili, contro le pareti, come in un ingiusto castigo. Ascoltandolo non si può evitare di essere invasi da un’aura di, da una sensazione di.
Si può essere inghiottiti pian piano senza accorgersi della coltre nebbiosa che non fa vedere e ascoltare il filo sottile di acciaio che urta e fa risuonare sordo il pennone nel prato del campus, che tiene alta la bandiera che non sventola, a testa in giù, perché umida. Si può sprofondare udendo le parole che rugliano urtando nella frase.