
Due strani personaggi, autori di se stessi, fanno colazione sull’erba del giardino dell’Università di Princeton. È l’agosto del 1935, Albert Einstein aveva invitato Luigi Pirandello nella sua università. Da anni lo scienziato provava ad incontrarlo. Lo aveva invitato anche a casa sua per una cena con Charlie Chaplin. Niente, non accettò l’invito.
Chi avvicinava il relativismo esistenziale dei suoi personaggi alla teoria della relatività di Einstein lo faceva innervosire: «…ebbene, quei problemi erano unicamente miei, erano sorti nel mio spirito, si erano naturalmente imposti al mio pensiero. Solo dopo, quando i miei primi lavori apparvero mi fu detto che quelli erano i problemi del tempo, che altri, come me, in quello stesso periodo si consumavano su di essi. E oggi ancora io non conosco Einstein». In un incontro fugace fra i due in un camerino di teatro Albert disse a Luigi: “Noi siamo parenti”, facendo riferimento alla relatività.
Nel suo viaggio negli Stati Uniti invitato lì per accordi con le major hollywoodiane per gli adattamenti delle sue opere al cinema, Pirandello – in una tumultuosa conferenza stampa – difese le imprese coloniali di Mussolini in Africa dicendo che «…l’America era un tempo abitata dagli Indios e voi l’avete occupata. Se era diritto il vostro, lo è anche il nostro». Non faceva una grinza l'elementare discorso colonialista pirandelliano.
Ora, erano lì, sul prato di Princeton, Einstein scamiciato e Pirandello nel suo vestito scuro, da uomini di un altro tempo, anche per il loro tempo. La discussione probabilmente non fu serena. E lo scienziato all’amico “apolitico” o “impolitico radicale” rinfacciò la tessera fascista. Alla fin fine, come succede con i parenti imbarazzanti, bisogna pur prendere le dovute distanze.