
La cueva de las manos, Patagonia
Ai margini del mondo accademico, lontani da ogni vincolo contrattuale, l’attitudine a pensare è considerata con sospetto. Chi è delegato d’ufficio all’attività del pensiero ragiona perseguendo obiettivi concreti, assolvendo impegni didattici, proponendo simulazioni di scenari utili per la produzione.
Pensare diventa così una funzione accessoria del funzionamento della megamacchina sociale, prodotto edulcorato dalla definizione ossessiva di obiettivi concreti. Si pensa con la mentalità del trafficante e con la stessa mentalità si costruisce il sociale.
Restano pochi margini per una deviazione positiva, per un errare fitto d’incontri inattesi, per l’esplorazione dei confini ignoti. Ogni sforzo deve fruttare, deve far aumentare gli indici di rendimento, gli indici di qualità: il pensiero deve apportare un evidente “avanzamento del benessere pubblico e privato”.
L’efficientismo del pensare ha seppellito definitivamente l’epoca delle passioni filosofiche e ci ha insegnato un professionismo tanto specializzato quanto sterile. I professionisti del pensiero si accontentano di alimentare i propri circoli, le proprie strutture sempre più inaccessibili, i propri legami con i poteri dominanti.
Se ne ricava un quadro fosco, in cui ogni pensare luminoso appare bloccato da una struttura di cooptazione che agisce per mutilazione e per abbrutimento. Pensare dunque. Criticamente, sarebbe da augurarsi.
Pietro Piro, La comunità dei virtuosi. Una sfida al conformismo sociale. Edizioni Unicopli, Milano 2016. Incipit dell’introduzione.