
Nulla di più inesatto. In realtà Jacques de Chabannes signore di La Palisse (o La Palice) visse due secoli prima. Non era di sangue blu, ma fu un militare di carriera, giunto al grado di maresciallo, e si guadagnò il titolo nobiliare come compenso. Appena c’era una guerra, il re di Francia lo spediva al fronte. Di solito La Palisse andava, pigliava un sacco di botte e se ne tornava a casa, malconcio. A volte però vittorioso.
Per quarant’anni e passa praticò il mestiere della battaglia. Poi, un brutto giorno, l’epilogo: nel corso di un assedio a Pavia, il valoroso Lapalisse si becca una lancia in testa e ci lascia le penne.
A questo punto, dopo la sepoltura d’onore, doveva essere inciso l’epitaffio, il verso dell’ode funebre dedicata dai soldati. Ma il marmista forse aveva poca dimestichezza con l’ortografia, oppure era un uomo distratto, o spiritoso. Così, anzichè scolpire le parole “Monsieur de La Palisse, se non fosse morto farebbe (con la effe) ancora invidia” (envie, in francese) scrisse “sarebbe ancora in vita (en vie).
Puoi anche aver vissuto come il più coraggioso combattente di tutti i tempi, ma se sulla tua tomba si legge una scemenza come “Non fosse morto, sarebbe ancora in vita”, allora il destino della tua memoria sarà uno solo, quello di essere preso per il sedere, in eterno e sempre. E così accadde.
L’ingenuità della sua lapide suscitava più risate che lacrime o saluti marziali. Un secolo dopo, il poeta e letterato Bernard de la Monnoye intitolò a Lapalisse una canzone dove lo dileggiava come campione per antonomasia della banalità e dello scontato. Il brano ebbe gran successo. Da allora in avanti, e per il resto della Storia, il defunto maresciallo verrà ricordato soltanto per l'aggettivo cui diede la vita senza volerlo. (http://personalitaconfusa.splinder.com)