
Illustrazione di Mtgrul
Nella tradizione aneddotica sulla misantropia di Arthur Schopenhauer, il tratto propriamente misogino – in perfetta coerenza con l’irascibile intransigenza del suo carattere – ha assunto dimensioni leggendarie (*). Un’esemplare conferma è rappresentata dal celebre episodio, riportato con compiaciuta malevolenza da Bertrand Russell nel capitolo della sua Storia della filosofia occidentale sul filosofo di Danzica.
Un giorno, disturbato dalla stridula conversazione di un’anziana ricamatrice che chiacchierava con un’amica fuori dalla porta del suo appartamento, Arthur si scagliò sulla poveretta, gettandola dalle scale e provocandole lesioni permanenti. La donna gli fece causa e ottenne una sentenza favorevole che costringeva il filosofo a risarcirla con la somma di 15 talleri per ogni trimestre, a titolo di vitalizio. Dopo vent’anni, la donna morì e Schopenhauer, con cinica soddisfazione, annotava sul suo registro contabile: «Obit anus, abit onus (la vecchia muore, il debito cessa)».
Ma anche nelle opere speculative di Schopenhauer non mancano inequivocabili e sarcastiche considerazioni misogine. Nel capitolo “Sulle donne” di Parerga e Paralipomena, si legge : «Le donne sono il sexus sequior, sesso inferiore in ogni senso, fatto per stare in disparte e sullo sfondo». Sono «puerili, futili e di vista corta. In una parola, restano per tutta la vita dei grandi fanciulli».
Tuttavia, se non ci si arresta ai dati sommari della biografia e si interroga l’origine di questo pregiudiziale disprezzo (e poco intellettuale) per le donne, ci si fa incontro una banalissima vicenda di maschio ferito e frustrato. Le relazioni di Schopenhauer con l’altro sesso sono sempre state costellate da cocenti delusioni. A cominciare dal rapporto con la madre. Johanna Henriette Trosiener è, infatti, una donna salottiera, poco incline alla vita domestica e con forti velleità letterarie. Scrive romanzi di successo e frequenta il mondo dei poeti e degli artisti. Arthur è affidato alle cure del padre, Heinrich Floris Schopehauer, un ricco e colto mercante di idee liberali, che sogna di impartire al figlio un’educazione cosmopolita.
Nel 1797 nasce la sorella minore, Adelaide, mentre Arthur, ad appena nove anni, segue il padre in un viaggio a Parigi e soggiorna per due anni, a Le Havre, presso un amico di famiglia . Al ritorno ad Amburgo viene avviato agli studi commerciali, sacrificando la sua vocazione per gli studi umanistici. Tutta la giovinezza di Schopenhauer è costellata di viaggi nelle maggiori città europee, che, in ossequio alla volontà paterna, costituiscono le tappe necessarie per il suo tirocinio imprenditoriale. Nel 1805 accade però un fatto decisivo per la vita di Arthur: il padre Heinrich muore suicida, ufficialmente per questioni economiche, ma si sospettano motivi di natura sentimentale, dovuti a dissapori con la moglie.
Ed è proprio questo sospetto che acuisce il conflitto di Arthur con la madre, la quale, subito dopo il suicidio del marito, si trasferisce a Weimar con la figlia Adelaide. Arthur rimane ad Amburgo a curare gli affari dell’impresa paterna, costretto a coltivare, quasi di contrabbando, i suoi interessi umanistici e filosofici. Due anni dopo, finalmente libero di dedicarsi interamente alla filosofia, si trasferisce a Weimar, ma rifiuta di risiedere insieme alla madre e alla sorella, prendendo alloggio presso il grecista Passow. Quando, infine, a Johanna capita tra le mani la tesi filosofica del figlio (Sulla quadruplice radice del principio di ragione sufficiente), non sa trattenere una sprezzante stroncatura: «Si tratta di un gadget per farmacisti...». Arthur ne è profondamente offeso e rompe definitivamente i rapporti con la madre.
Forse, molto più che dal proverbiale aspetto sgraziato, è soprattutto da questa difficile relazione parentale che discendono le sue disavventure di seduttore mancato. Da adolescente aveva cercato di abbordare attrici di teatro, ma viene respinto ed è costretto a farsela con delle prostitute. Più tardi confesserà: «Quanto alle donne, le ho sempre apprezzate – se solo avessero voluto saperne di me!». In verità, è riuscito a conseguire un insperato successo sentimentale. Nel 1818, mentre era a Dresda, Schopenhauer intreccia una relazione con una domestica; ne nasce un figlio che muore subito dopo in tenerissima età. In attesa di un aiuto finanziario, il filosofo non accenna a dolersene e sembra consolarsi ben presto della perdita.
Dunque, un nuovo documento dell’abominevole cinismo del filosofo? Le cose non sono così semplici. Anche Schopenhauer è stato perdutamente innamorato, ma a modo suo. La sua vera fiamma fu Caroline Richter, attrice, ballerina e corista nei teatri di periferia. Bella e libera, ebbe numerosi amanti. Arthur impazzì di gelosia per lei. Ma la passione, si sa, è più forte d’ogni remora. Schopenhauer progetta seriamente di sposarla e la supplica di fuggire insieme da Berlino. Ma c’è un terribile colpo di scena: Caroline partorisce un figlio avuto da un altro uomo e Schopenhauer, com’era prevedibile, detesta il bambino. Dopo una relazione durata dieci anni, la rottura appare dunque inevitabile. Ma poco prima di preparare le valigie per abbandonare la capitale prussiana, umiliato e offeso dagli eventi, è colto da un raptus di follia: a 43 anni suonati, chiede in moglie una ragazza di 17 anni, che si fa cordialmente scherno di lui.
Eppure, è lo stesso Schopenhauer che non esita a scagliare il suo dardo maligno contro l’istituzione del matrimonio : «Sposarsi vuol dire fare tutto il possibile per diventare oggetto di disgusto per l’altro»; e colma la misura con l’aggiunta di un corollario particolarmente sardonico: «La poligamia avrebbe, tra l’altro, il vantaggio di impedire ogni legame tra l’uomo e i suoi suoceri, timore che oggi impedisce più di un matrimonio. Dieci suocere, al posto di una!».
A Francoforte, lo aspetta una vita da scapolo incallito e scontroso, con i giorni scanditi da immancabili rituali: sempre nel medesimo ristorante e, dopo i pasti, le medesime passeggiate in compagnia dell’essere che egli ama di più, il barboncino Atma (“l’anima del mondo” nella filosofia indù, che tanto lo affascina).
Ma ecco che nel 1851, la pubblicazione di Parerga e Paralipomena gli assicura una fama inattesa, clamorosa quanto tardiva – che sembra risarcirlo del disinteresse dei contemporanei per il suo capolavoro Il Mondo come volontà e come rappresentazione. Il successo, peraltro, rinfocola la sua mai sopita vanità maschile. Si compiace di discutere la sua metafisica con nuove, colte e avvenenti ammiratrici: diventa un filosofo mondano. E quando una di queste, Elisabet Ney, viene a trovarlo a casa, quasi quotidianamente, per scolpire il suo busto in bronzo, il filosofo del pessimismo esistenziale si trasforma in un paladino dell’amore serafico: «Quando torno dal pranzo e prendiamo il caffè, ci sediamo sul canapè, mi sembra quasi di averla sposata».
È un godimento del tutto platonico, evidentemente, ma sufficiente a smorzare nel vecchio filosofo la sua antica misoginia. Negli anni che precedono la sua morte, Schopenhauer arriva persino a confidare a Malwida von Meysenbug, futura protettrice di Nietzsche: «Non ho ancora detto la mia ultima parola sulle donne: credo che, se una donna riesce a sottrarsi alla massa, e quindi a sollevarsi al di sopra di essa, è destinata a crescere continuamente, molto più di un uomo». Tardive resipiscenze o metamorfosi senili? Questioni di ermeneutica spicciola, o forse no….
(*) Le citazioni riportate nel testo sono tratte dall’opera biografica di Rüdiger Safranski, Schopenhauer e gli anni selvaggi della filosofia, tr. it. L. Crescenzi, editore Tea, Milano, 2008.