
Nel cerchietto Osama bin Laden quindicenne
Può capitare di vedere su un giornale la fotografia di un pericoloso criminale, un efferato mafioso o un orribile signore che ha commesso i crimini peggiori. Non una fotografia che lo ritrae da adulto, ma una docile e tenera immagine del bambino dei tempi andati. Come quella di Osama bin Laden quattordicenne, ritratto in Svezia con una parte dei suoi 22 fratelli e sorelle in gita nel 1971. Chi vedrebbe in quegli occhi sorridenti e sereni il deragliamento dell’adulto?
Accade, probabilmente, agli uomini, un evento che dà l’impronta agli anni successivi, ma che non è ancora decisivo. Qualcosa fa pensare che avvenimenti ulteriori nel tempo provocheranno l’effetto domino che porterà l’individuo a fare scelte non consuete, che gli faranno perdere il sorriso, mentre la vita privata, e quella pubblica, scorre come d’abitudine. Mentre tutto fluisce in una sonnolente vita da piccolo uomo borghese.
La normalità del male
Hannah Arendt era meravigliata dai gerarchi nazisti che apparivano come persone normali. Loro, responsabili di crudeltà fatte ai propri simili. Nessuna meraviglia. Durante la detenzione a Gerusalemme di Adolf Eichmann, uno dei principali responsabili dello sterminio degli ebrei nella Germania nazista, venne fuori una parte della sua personalità. Ecco cosa riporta Arendt ne La banalità del male: «…Il giovane poliziotto incaricato di salvaguardare il suo benessere mentale e psicologico gli dette da leggere Lolita, come svago; dopo due giorni Eichmann gli restituì il libro dicendo con aria indignata. “Ma è un libro sgradevole!”». La storia dell’innamoramento di un adulto per una minorenne, narrata dallo scrittore Vladimir Nabokov, seppur di fantasia, aveva visibilmente contrariato lo spietato nazista tutto casa, famiglia e lavoro. E quella era la sua opinione su quel romanzo.
L’etica dello sterminio
E per rimanere nel periodo, nel film poco famoso Nuremberg del 2001 che riassume fatti veri del più famoso processo prima citato, Rudolf Höss, uno dei comandanti del campo di concentramento di Auschwitz, dice con tono fiero e perentorio allo psicologo: «…Vorrei mettere in chiaro una cosa, io non ho mai tollerato la crudeltà gratuita. I miei uomini erano lì per sterminare, non per torturare persone. Ogni abuso da parte delle guardie veniva punito. (…) La mia vita era normale a tutti gli effetti. Mentre mi occupavo delle operazioni di sterminio, io conducevo un’esistenza familiare perfettamente tranquilla». C’è un’umanità nei criminali, e c’è un’etica dello sterminio.
È possibile che nel fondo della propria coscienza, fra le mura familiari, l’essere umano più terribile possa rimanere un normale essere umano? È possibile che parallelamente ad una personalità turbata scorra una vita ordinaria, dove gli occhi e il viso sereno del bambino che è stato continuano ad essere occhi e volti sereni? Il soggetto, forse, non avverte la frattura fra i due atteggiamenti, e il criminale può continuare ad essere il bello e docile bambino che è stato, quello riconosciuto dalla propria madre e dal proprio padre.
Il fortunato silenzio nella coscienza
Non si può sapere se nella decisione di Vittorio Alfieri – vissuto scioperatamente fino all’età di 27 anni per poi decidere di cambiare vita imponendosi il celebre Volli, sempre volli, fortissimamente volli, legandosi alla sedia davanti alla scrivania per non pensare più alla signora odiosamata della quale si era invaghito, non corrisposto – vi fu una breve o lunga elaborazione del futuro della sua vita oppure un’improvvisa scelta. Ma William James, nei Principii di Psicologia, dà una breve e chiara descrizione di quello che potrebbe accadere nella coscienza:
«Noi tutti sappiamo che cosa significa scendere dal letto in una fredda mattinata d’inverno, in una camera senza fuoco, e come il principio vitale che è dentro di noi protesti con tutte le sue forze contro quest’ordine. Probabilmente i più fra i miei lettori sono talvolta stati lì per un’ora a combattere, incapaci di prendere l’eroica risoluzione. Si pensa che si farà tardi pel tale impegno; che tutti i doveri della giornata soffriranno pel ritardo; si dice: “Debbo alzarmi, è vergognoso!”, ecc.; ma il caldino delle coperte è così delizioso, il freddo di fuori così aspro, che le belle risoluzioni impallidiscono e si ritirano pian pianino proprio nell’istante in cui stavano per vincere l’ultima resistenza e mettere capo all’atto decisivo. Ora, come va che in quelle circostanze finiamo tuttavia per alzarci? Se debbo generalizzare dalla mia esperienza personale, il più spesso finiamo per alzarci senza lotta e senza decisione di sorta. Improvvisamente, troviamo che ci siamo alzati. Si ha un momento fortunato di silenzio nella coscienza: dimentichiamo tanto il freddo come il caldo; pensiamo vagamente a qualche cosa che si collega con la nostra vita giornaliera, e durante questo pensare ci lampeggia davanti forse l’idea: “Olà, non debbo dormire più oltre”, idea che in quell’istante opportuno non ridesta alcuna suggestione contraddittoria o paralizzante, e, conseguentemente, produce tosto gli opportuni effetti motori. Era la coscienza acuta del caldo e del freddo durante il periodo di lotta ciò che paralizzava la nostra attività, e che manteneva la nostra idea di alzarci nella condizione di desiderio e non di volontà. Appena cessate le idee inibitrici, l’idea originaria aveva manifestati i suoi effetti. Sembra a me che questo caso contenga in miniatura i dati per un’intiera psicologia della volontà».
Lo sfortunato silenzio nella coscienza
È tortuoso, quindi, individuare il momento preciso di una decisione, quando la volontà di una persona agisce, quando il bambino sorridente della fotografia, ormai adulto, avrà il suo “momento sfortunato di silenzio nella coscienza” e si trasformerà nell’uomo brutale che scioglierà nell’acido un altro bambino per una faccenda di potere o di onore. E non si tratta di persone affette da una patologia psichiatrica.
Così, forse il passaggio non avviene improvvisamente. La foto sorridente probabilmente si sbiadisce col passare degli anni, dissolvendo i sorrisi e i volti pian piano, materializzando volontariamente o involontariamente gl’incubi delle notti del bambino, costruendo l’incubo sociale e il terrore per somma di incubi individuali, costruzioni di singole persone in associazione con altre singole persone, di uno o più clan, di uno o più popoli. Un collage di gruppo delle terrificanti notti individuali, il mosaico degli orrori dell’infanzia dell’uomo.
@FrancescoPanaro