
In questi ultimi mesi, un paese che sembrava narcotizzato da 15 anni di populismo televisivo ha conosciuto momenti di vitalità sociale insperati e promettenti. Non se ne farà qui l’elenco. E non si esaminerà il ruolo che internet ha svolto nelle vittorie ai referendum su nucleare, acqua e legittimo impedimento. Al contrario, queste pagine prendo spunto dalle vicende del movimento No Tav, reso noto ai meno informati dagli scontri del giugno scorso e luglio scorso. Già, gli scontri. Se c’è qualcosa in grado di dividere il sempre fragile e precario fronte del progressismo italiano, di certo è la questione della violenza. Se infatti nel caso del referendum hanno marciato insieme – volenti o nolenti – Pd e Federazione della sinistra, comitati spontanei e sindacati, Arci ed associazioni cattoliche, il tema della violenza al contrario ha apparentemente frantumato in mille pezzi il popolo dei beni comuni, rimettendo in scena la vecchia ma sempre fortunata commedia degli equivoci della politica italiana. Nella parte dei “Responsabili”, ecco i maggiori partiti che condannano prontamente la violenza, specie se rivolta contro una scelta presa democraticamente nelle sedi appropriate (provincia, regione). Nel ruolo dei “Violenti”, i cosiddetti estremisti, vestiti di nero e pronti ad inserirsi nelle altrui questioni armati di bastone, pietre e retorica spontaneista. Stretta tra i due blocchi, si consuma l’antica tragedia dei non violenti che condividono la protesta pur rifiutando ogni tipo di dissenso non pacifico.
Difficile prendere posizione, in un dibattito reso così poco credibile sin dal principio. Impossibile d’altronde non prendere posizione, data la rilevanza della questione. Deviando dalla sciocca dialettica televisiva violenza-non violenza, sarebbe preferibile isolare un aspetto della vicenda Tav tanto centrale, quanto trascurato: il rapporto tra comunità e verità. In breve, una domanda: in che modo la comunità dice e conosce la verità su se stessa?
Uno degli argomenti più seri contro la costruzione della linea ad alta velocità in Val di Susa è rappresentato dalla pressoché unanime contrarietà della popolazione locale. A questa obiezione, le autorità hanno risposto all’unisono, ribadendo la correttezza formale dei passaggi democratici che hanno portato alla decisione di costruire la Tav in quel territorio. Ci può stare, forse no; ma al di là del piano della forma e della legalità, viene da chiedersi se sia giusto che il parere contrario di un cittadino direttamente investito dall’impatto della decisione abbia lo stesso peso specifico del parere favorevole di un suo omologo che vive a centinaia di chilometri di distanza. E se a dichiararsi contrario è non un individuo isolato, ma un’intera comunità, ecco che la costruzione della Tav appare come un sopruso anti-democratico a mezzo di democrazia.