
Sartre fotografato in Lithuania da Antanas Sutkus.
All’improvviso tutto era presente, si animava, riaffiorava dentro di me, venivo travolto dagli stati d’animo più strani, scosso da ricordi piccolissimi. Sì, in un certo senso la vita là era più pura, più frugale. Mi tornava in mente tutto, passavo in rassegna tutti quanti, uno dopo l’altro, tanto quelli che mi interessavano quanto quelli che avevano un loro motivo d’essere anche soltanto per questa reminiscenza, per la mia esistenza: Bandi Citrom, Pjetka, Bohusch, il dottore e tutti gli altri. E per la prima volta, adesso pensai a loro con un piccolo rimprovero, con una specie di affettuoso rancore.
Però non esageriamo, perché il problema è proprio questo: io ci sono e so bene che, pur di poter vivere, il prezzo che pago è di accettare qualunque punto di vista. E mentre lascio vagare il mio sguardo sulla piazza che riposa tranquilla nella luce del tramonto, sulla strada provata dal temporale eppure piena di mille promesse, già avverto crescere e lievitare in me questa disponibilità: proseguirò la mia vita che non è proseguibile. Mia madre mi sta aspettando e probabilmente sarà felice di rivedermi, la poveretta.
Ricordo che un tempo aveva in mente che io diventassi un giorno ingegnere, un medico o qualcosa del genere. Probabilmente succederà proprio come lei desidera; non esiste assurdità che non possa essere vissuta con naturalezza e sul mio cammino, lo so fin d’ora, la felicità mi aspetta come una trappola inevitabile. Perché persino là, accanto ai camini, nell’intervallo tra i tormenti c’era qualcosa che assomigliava alla felicità. Tutti mi chiedono sempre dei mali, degli “orrori”: sebbene per me, forse, proprio questa sia l’esperienza più memorabile. Sì, è di questo, della felicità dei campi di concentramento che dovrei parlare loro, la prossima volta che me lo chiederanno.
Sempre che me lo chiedano. E se io, a mia volta, non l’avrò dimenticata.
Essere senza destino, Imre Kertész