Era soprattutto la loro maniera di essere e di scomparire, la straordinaria spontaneità che ne emana, l’impressione di naturalezza che ritrovavamo qui, nella regione di En Haut. Ho sempre capito la familiarità che mi lega a Rossinière. C’è qualcosa che raggiunge le leggi dell’armonia universale.
Un equilibrio fra le masse, e soprattutto un fluidità dell’aria, una qualità della luce che rendono ogni cosa più evidente, in una chiarità originaria. Ecco perché amo tanto la pittura dei primitivi italiani e quella dei cinesi e dei giapponesi. La loro pittura è sacra, ha il compito di trovare, la di là delle apparenze, delle forme visibili, l’invisibile delle cose, un segreto dell’anima.
Non c’è differenza fra Piero della Francesca, per esempio, e un maestro dell’Estremo Oriente. Come non c’è non c’è differenza fra i loro paesaggi e quello che vedo dalle mie finestre:la stessa bruma che scende certe sere prima di notte, lo stesso slancio verso il cielo, la stessa eternità.
Ma questa frequentazione elettiva risale all’infanzia, quando avevo illustrato una novella di uno scrittore cinese. Rilke, presso il quale ho vissuto a lungo, ne era rimasto stupito, vedendo tuttavia in tale scelta un felice presagio, una predilezione per un certo sguardo, una maniera singolare di vedere. C’è pittura soltanto in tale traversata, nei passaggi fra le civiltà, in tale ricerca metafisica. Altrimenti, non c’è pittura.
Nutro per l’Italia una tenerezza originaria, fondamentale, innocente. Ma al di là dell’Italia, ciò che amo in essa è la sua capacità di conservare qualcosa dell’unità primitiva, della freschezza delle origini. Sicché posso ritrovare l’Italia anche in un paesaggio cinese, come in esso posso ritrovare le leggi dell’armonia universale che un primitivo senese, per esempio, cercava di rappresentare.
Ho visitato l’Italia durante la mia giovinezza. Nel 1926. Mia madre è venuta a trovarmi con Rilke. Sono ricordi molto forti, molto commoventi. Rilke era capace di avere una grande familiarità con i ragazzini. Una grazia segreta ci univa. Mi aveva accolto nella sua proprietà del Vallese, con i suoi paesaggi vergini, che somigliano a tele di Poussin.
È senza dubbio là che ho acquisito la predilezione per il maestro del XVII secolo. Per la sua scienza dell’equilibrio di cui cerco sempre di ritrovare la traccia, di cogliere il mistero. Ho ritrovato tale grazia nei paesaggi attorno a Montecalvello.
In quel luogo, fra montagna e vallone, fra i boschi, le terrazze e il fiume che si snoda come un serpente argenteo in mezzo ai campi, tra la fierezza severa del castello e la gentilezza delle case contadine ai suoi piedi, c’è una sorta di quintessenza dell’ordine universale.
Vi si ritrova tutto ciò cui mi hanno condotto le mie scelte di sempre: la pittura cinese, i primitivi italiani, e anche Bonnard, che mitiga il rigore geologico del sito eccezionale, quando le faglie rocciose, alla maniera del pittori dell’Estremo Oriente, si affiancano alla tenerezza delle pergole che sarebbe piaciuta appunto a Bonnard.
Ma bisogna saper raggiungere questo punto d’equilibrio del paesaggio. Quando ci sono riuscito, credo sia stato anche grazie alla disponibilità che avevo in me, alla pazienza, alla povertà contadina che si devono acquisire, altrimenti si accede a una falsa ingenuità, a un’innocenza artificiale, un po’ come in Chagall. Vivere di fronte alle Alpi mi ha insegnato questa necessità. Essere in attesa di questa rivelazione, nella speranza che si palesi.
Un equilibrio fra le masse, e soprattutto un fluidità dell’aria, una qualità della luce che rendono ogni cosa più evidente, in una chiarità originaria. Ecco perché amo tanto la pittura dei primitivi italiani e quella dei cinesi e dei giapponesi. La loro pittura è sacra, ha il compito di trovare, la di là delle apparenze, delle forme visibili, l’invisibile delle cose, un segreto dell’anima.
Non c’è differenza fra Piero della Francesca, per esempio, e un maestro dell’Estremo Oriente. Come non c’è non c’è differenza fra i loro paesaggi e quello che vedo dalle mie finestre:la stessa bruma che scende certe sere prima di notte, lo stesso slancio verso il cielo, la stessa eternità.
Ma questa frequentazione elettiva risale all’infanzia, quando avevo illustrato una novella di uno scrittore cinese. Rilke, presso il quale ho vissuto a lungo, ne era rimasto stupito, vedendo tuttavia in tale scelta un felice presagio, una predilezione per un certo sguardo, una maniera singolare di vedere. C’è pittura soltanto in tale traversata, nei passaggi fra le civiltà, in tale ricerca metafisica. Altrimenti, non c’è pittura.
Nutro per l’Italia una tenerezza originaria, fondamentale, innocente. Ma al di là dell’Italia, ciò che amo in essa è la sua capacità di conservare qualcosa dell’unità primitiva, della freschezza delle origini. Sicché posso ritrovare l’Italia anche in un paesaggio cinese, come in esso posso ritrovare le leggi dell’armonia universale che un primitivo senese, per esempio, cercava di rappresentare.
Ho visitato l’Italia durante la mia giovinezza. Nel 1926. Mia madre è venuta a trovarmi con Rilke. Sono ricordi molto forti, molto commoventi. Rilke era capace di avere una grande familiarità con i ragazzini. Una grazia segreta ci univa. Mi aveva accolto nella sua proprietà del Vallese, con i suoi paesaggi vergini, che somigliano a tele di Poussin.
È senza dubbio là che ho acquisito la predilezione per il maestro del XVII secolo. Per la sua scienza dell’equilibrio di cui cerco sempre di ritrovare la traccia, di cogliere il mistero. Ho ritrovato tale grazia nei paesaggi attorno a Montecalvello.
In quel luogo, fra montagna e vallone, fra i boschi, le terrazze e il fiume che si snoda come un serpente argenteo in mezzo ai campi, tra la fierezza severa del castello e la gentilezza delle case contadine ai suoi piedi, c’è una sorta di quintessenza dell’ordine universale.
Vi si ritrova tutto ciò cui mi hanno condotto le mie scelte di sempre: la pittura cinese, i primitivi italiani, e anche Bonnard, che mitiga il rigore geologico del sito eccezionale, quando le faglie rocciose, alla maniera del pittori dell’Estremo Oriente, si affiancano alla tenerezza delle pergole che sarebbe piaciuta appunto a Bonnard.
Ma bisogna saper raggiungere questo punto d’equilibrio del paesaggio. Quando ci sono riuscito, credo sia stato anche grazie alla disponibilità che avevo in me, alla pazienza, alla povertà contadina che si devono acquisire, altrimenti si accede a una falsa ingenuità, a un’innocenza artificiale, un po’ come in Chagall. Vivere di fronte alle Alpi mi ha insegnato questa necessità. Essere in attesa di questa rivelazione, nella speranza che si palesi.